mercoledì 2 maggio 2012

Teatro San Martino, tre giorni di Resistenza


Ancora tre giornate di vita per il Teatro San Martino di Bologna: da domani a sabato, l'arena di via Oberdan sarà sede di un'intensa carrellata di atti performativi e dibattiti, il frutto dell'iniziativa di una decina di ragazzi cresciuti in quello spazio e che hanno tentato di mettere in campo una reazione dal basso al commiato di Fortebraccio teatro. Non sarà però un tentativo estremo di scongiurare l'uscita della compagnia di Roberto Latini né di trovare una mediazione con gli enti locali o la proprietà. Sarà semmai l'occasione di osservare dall'alto un sistema - quello teatrale - che perde pezzi di continuo su scala locale e nazionale, con la speranza di raccogliere riflessioni e analisi in grado di ripensare il modello e di rivitalizzare, di conseguenza,  tutto il sistema degli spazi teatrali.

"Non abbiamo richieste se non quelle di capire - scrivono i ragazzi in una nota -  Come fare, cosa fare, se si può ancora fare qualcosa. Partire dal nostro, invitare tutti in questo luogo che è stato così importante negli anni, ritrovarci insieme. Proposta attiva per spargere il seme di una speranza. Speranza che altri spazi non vadano chiusi, altre idee perdute. La nostra non è un’occupazione - spiegano -. Tre giornate autofinanziate e autogestite che abbiano il colore dell'unità nelle differenze. Raccogliere esperienze, idee. Lavori. Percepiamo una crisi ormai conclamata nelle nostre parole e nei nostri corpi. La cultura può essere un nuovo baricentro, un motore trainante attivo? Lanciamo il sasso nell'acqua in attesa che i cerchi si propaghino".


Si parte domani a mezzogiorno con un'assemblea. Poi inizieranno le performance che per tutte le tre giornate si alterneranno a momenti di dibattito. Qui trovate programma e adesioni.

Di Teatro San Martino si è parlato oggi anche in Consiglio Comunale, con un intervento a inizio seduta della capogruppo di Sel, Cathy La Torre: "ogni  tentativo  va  fatto - ha detto -  per salvaguardare una realtà come il Teatro San Martino  che  è  stata  in  grado  di  offrirci  per  tre stagioni un ricco cartellone  di  spettacoli  e  incontri  con  registi,  performer, attori, danzatori  e  di intraprendere  un percorso formativo per giovani attori e attrici. Se  non  fosse  possibile  mantenere in uso quello spazio - ha aggiunto la consigliera - alle Istituzioni chiedo  di impegnarsi perché vengano preservate le produzioni e il percorso formativo. Uno  spazio  che chiude - ha concluso - è sempre una sconfitta, una perdita, una possibilità sottratta alla ricchezza della città".

Teatro Testoni: Ert in uscita, ma rientrerà?


Da un sipario all'altro: sabato scorso con l'ultima replica di Karamazov di César Brie, si è conclusa la stagione del teatro Testoni di Casalecchio di Reno, nel Bolognese. Un sipario più pesante del solito visto che assieme alla stagione chiude anche la convenzione che affidava all'Ert la gestione di quell'arena.

Comune di Casalecchio e Ert ne avevano dato l'annuncio in una nota congiunta diffusa ormai diverse settimane fa e che forse confondeva - più che chiarire - il passaggio che quel teatro è ormai prossimo a compiere: prova ne è il fatto che all'inizio solo il Resto del Carlino riportò la notizia,  titolando sui lavori di ristrutturazione mi sembra, mentre Repubblica ne ha parlato solo l'altro giorno, dando già per definitiva l'uscita di Ert da quella gestione per "regolamento". In realtà, a essere precisi,  non è il regolamento a determinare quest'esito: le norme impongono solo la messa a bando della gestione, quindi l'impossibilità di rinnovare la convenzione automaticamente, ma non impediscono al gestore uscente di ricandidarsi per un nuovo mandato.

Ma quell'articolo, sebbene portasse il racconto un po' oltre la realtà dei fatti, accarezzava un timore molto diffuso nei  "dietro le quinte": nello stesso comunicato, infatti, si accenna rapidamente alla nuova convenzione, ventilando, attraverso una perifrasi, un ridimensionamento delle risorse. "L'Amministrazione Comunale - si legge nella nota - nonostante la crisi economica e i forti tagli alle risorse pubbliche per la cultura, non intende disperdere questo patrimonio teatrale né rinunciare a una programmazione di qualità, attenta ai bisogni della propria comunità, facendo però attenzione alla sostenibilità economica che i tempi difficili impongono".

Attenzione alla sostenibilità economica, dice il Comune. E non è azzardato prevedere che questa attenzione si traduca nel bando in un taglio alle economie, che già nell'ultimo anno - il settimo di gestione Ert, una proproga rispetto alla scadenza della convenzione fissata a sei anni -  si erano assottigliate di circa un quarto. E proprio Ert aveva dichiarato apertamente a inizio stagione la difficoltà di tenere aperto il teatro con quelle cifre: il cartellone che si è chiuso l'altra sera con César Brie era infatti il risultato di una chiamata inviata  dal direttore Pietro Valenti alle compagnie della regione, invitate a portare in scena i propri lavori a incasso, senza vedersi garantito il normale cachet. Un cartellone a chilometro zero, insomma, tutt'altro che sottotono, anzi costellato dai nomi più interessanti della scena contemporanea, dai Motus alla Socìetas Raffaello Sanzio, al Teatro delle Albe, ad Antonio Latella. Un esperimento riuscitissimo ma straordinario, quindi non ripetibile. Un'offerta che, tra l'altro, grazie ad un'interessante programmazione satellite di incontri con le compagnie (realizzata assieme all'Alma Mater), è riuscita ad avvicinare davvero il pubblico al teatro contemporaneo, tanto da garantire una media di circa 320 spettatori a replica, un numero enorme, davvero inconsueto a Bologna per questo genere di spettacoli. 

Inconsueto a Bologna, è bene specificarlo, ma non in altre città della regione: va  infatti riconosciuto a Ert (che ha il suo quartier generale a Modena, dove gestisce Storchi e Passioni, ma che lavora in quasi tutti i capoluoghi di provincia, dall'alta pianura alla riviera) il merito di effettuare un eccellente lavoro sul pubblico, senza scadere in una  programmazione facile e popolare, bensì guidando gli spettatori attraverso accurati percorsi di genere, tanto nel teatro tradizionale quanto in quello di ricerca. E infatti a Modena gli spettacoli a teatro sono quasi sempre "sold out", raccolgono un pubblico ampio e trasversale e ricevono una risposta consapevole e spesso addirittura molto competente. A Bologna, al contrario,  mi è capitato di incontrare all'uscita di un teatro un folto gruppo di anziani che protestava animatamente per la "porcheria" appena andata in scena: si trattava di Finale di Partita di Samuel Beckett, regia di Massimo Castri con in scena uno straordinario Vittorio Franceschi. Tutt'altro che una porcheria insomma, ma quella reazione paradossale di quel gruppetto di abbonati aveva tutto l'aspetto dello sbigottimento di chi per la prima volta - inconsapevolmente - vedeva rappresentato un copione del maestro del teatro dell'assurdo. A Modena, al contrario, ho visto il pubblico della domenica pomeriggio (signore e signori incappottati, per intenderci) esplodere in un boato di applausi per spettacoli analoghi. Lavorare sul pubblico, calibrare l'offerta, pensare accuratamente alle politiche di abbonamento, dotare lo spettatore degli strumenti per decodificare il lavoro drammaturgico: sono tutte azioni che generano effetti immediati ed evidenti nelle platee, quantificabili secondo me perfino nel numero di telefoni che squillano durante una rappresentazione teatrale.

Lo stile del lavoro di Ert e i numeri che quel lavoro ha prodotto sono i punti che bisogna tenere ben chiari nel ragionamento sul Teatro Testoni di Casalecchio: quell'arena funziona molto bene ed è l'unico spazio del bolognese in cui quel modello, quel modo di proporre teatro,  prende forma. Interrompere quella gestione vorrebbe dire non solo perdere quell'offerta ma anche vedere dissolversi uno sprone importantissimo per il sistema teatrale bolognese, già di per sè pigro e poco ricettivo.

La gara per la nuova gestione del Testoni si gioca tutta nelle prossime settimane: Ert (che deve gestire tagli analoghi in molti dei Comuni in cui opera)  per ora non si sbilancia e si riserva di leggere il bando prima di annunciare la propria partecipazione. Sette anni fa per quella gestione si candidò anche Nuova scena, la cooperativa che ha in convenzione l'Arena del Sole di Bologna, nel frattempo trasformatasi in una fondazione. Un antagonismo arcinoto quello tra "modenesi" e "bolognesi", di cui potremmo vedere nuove puntate: quando si trattò di salvare il Duse, un paio di anni fa, furono proprio le schermaglie tra Ert e Nuova scena - e l'incompatibilità tra i due modelli di gestione - a decretare il naufragio della soluzione progettata dagli enti locali, cioè una grande fondazione regionale, determinando tra l'altro la definitiva perdita di un cospicuo finanziamento ministeriale.




martedì 1 maggio 2012

Un terremoto a maggio


Avete mai trascorso il Primo maggio a Berlino? Io ricordo di averlo sfiorato da vicino, di essermi trovato lì nei giorni subito prima (o subito dopo?) la "festa" e di essere rimasto molto colpito dalla tensione che si incontrava nelle strade.

Spesso quella tensione sfocia in violenza e la violenza - certo - è sempre da condannare. Però dalla violenza al Festivalbar  passa un abisso: ecco, lo confesso, io vivo con disagio quel festone pop (mascherato da fricchettone) che ogni anno i sindacati mettono su in Piazza San Giovanni a Roma per il Primo Maggio, quest'anno in modo particolare. Non per il concerto in sé, ci mancherebbe, semmai per il suo essere il centro, l'aspetto più evidente e notiziato, della festa dei lavoratori italiani. Non un atto di disobbedienza massiccio che stabilisca in maniera radicale, anche solo per un giorno, una rivendicazione, una priorità e, perché no, una sovranità.  Le parole dei potenti e la musica dei famosi, nessuna rivoluzione "gentile" (una balera sulla A14, un'astensione di massa dai biglietti ferroviari, un grande pranzo collettivo in piazza o che ne so...) che parli la lingua del contropotere.

Eppure i dati parlano chiaro: in Italia il Primo Maggio quest'anno è la festa del lavoro che non c'è, del licenziamento in tronco, dell'esubero, dell'assenza di garanzie, della gavetta infinita. Ma soprattutto delle morti bianche, che non sono più solo incidenti di lavoro ma anche atti  disperati che hanno troppo a che fare col lavoro per considerarli un'altra cosa.

Se ogni disoccupato, esuberato, precario  o cassintegrato decidesse oggi per un'ora soltanto di alzare al massimo il volume della propria musica, in ogni quartiere sentiremmo crescere la vibrazione dei vetri e i botti dell'aria. E forse avremmo la sensazione (una bella sensazione, credo) che anche questo Paese potrebbe prima o poi iniziare a fremere, o a tremare.

Troviamo la nostra piccola pacifica rivoluzione: ci darà forza. E buon Primo Maggio.

lunedì 30 aprile 2012

Ventisei anni con Cuoghi e Corsello


L'ultima volta che sono stato a casa loro, circa dieci giorni fa, pioveva a dirotto e nonostante questo Pea Brain e Cane Cotto - alias Monica Cuoghi e Claudio Corsello - si erano dati da fare per fissare all'asfalto, nei pressi della loro porta, la barca di Schifìo: è una delle loro opere, forse quella che amo di più e che ho "frequentato" tanto addirittura, dal momento che fino a poco più di un anno fa era collocata in cima alla collina di Villa Ghigi e da lì - dice Monica - "magnetizzava la città". Io quando mi trovavo lì per una camminata la fissavo come meta e appena la raggiungevo mi ci mettevo dentro e da lì ammiravo l'orizzonte. Poi qualche balordo, una notte, la vandalizzò spingendola lungo il pendìo della collina e  la ridusse in pezzi. La testa - racconta ancora Monica - finì rotolando ai piedi di un albero secolare, quasi volesse cercare riparo presso uno spirito che da sempre abita quel parco. Ora la barca di Schifìo è tutta bianca, bellissima: quella sera l'avevano fissata in tutta fretta affinchè io potessi sedermici un'altra volta, come succedeva  a Villa Ghigi. La pioggia, però, ci aveva rovinato tutto. Anzi no, perchè noi lo stesso, sotto l'acqua, uscimmo accanto alla barca a brindare - io, Pea Brain, Cane Cotto, Sui Simo e Bianca, una della "bambine spirituali" - permettendoci perfino il lusso di fracassare tutti i bicchieri, una volta tracannato l'ultimo sorso.

Proprio durante quella cena Monica e Claudio mi parlarono della mostra "26" che di lì a poco avrebbero inaugurato alla Galleria Guido Costa projects di Torino (via Mazzini 24): 26 opere per festeggiare i loro 26 anni di sodalizio artistico. Sgranai gli occhi: che meraviglia, pensai. Perchè in 26 anni Claudio e Monica hanno costruito un vero e proprio cosmo parallelo, abitato da personaggi che ci passano accanto, sfiorandoci e osservando i nostri vizi e le nostre virtù. C'è Bello e Petronilla, P.Brain e  Suf, Nonno Degrado e Schifìo, la Fiat e le donnine; ma soprattutto c'è una favola metropolitana che ha preso vita, attraverso gli anni, all'ombra delle torri felsinee, regalando un racconto lisergico ma puntuale, in cui - per coincidenza di tempi e di luoghi, ma anche per sintonia di spirito - inevitabilmente mi riconosco.

La mostra resta allestita fino al 26 giugno: insomma è facile, basta ricordarsi il 26 e prendere un treno per Torino. Oppure sperare che qualche curatore decida un giorno di rifarla anche a Bologna.


sabato 28 aprile 2012

Teatro San Martino, Fortebraccio lascia: "Rinunciamo all'attesa"


Un tulipano giallo e solitario è il segno con cui Fortebraccio teatro, la compagnia diretta da Roberto Latini, dà il suo commiato al palcoscenico del San Martino di Bologna, scrivendo definitivamente la parola "fine" a un'esperienza di gestione iniziata nel 2007 e che per anni ha offerto con ostinazione il meglio del teatro di ricerca alla città delle Due Torri. Da Luca Ronconi a Emma Dante, da Mariangela Gualtieri al Teatro delle Albe. E poi Pippo Delbono, Armando Punzo, Mario Martone e una miriade di compagnie grandi e piccole, tutte quelle che hanno accolto l'invito singolare che Latini rivolgeva loro: venite qui, prendete residenza per un po' e scegliete voi lo spettacolo da offrire al pubblico. Un invito aperto che in tre stagioni è riuscito a far gravitare da via Oberdan una fetta ampia e interessante della ricerca drammaturgica, talmente ricca da far impallidire i teatri stabili in primo luogo, ma anche i tanti festival della Cultura "mordi e fuggi" di cui Bologna è drogata da anni.

Ma soprattutto lì dentro c'era Fortebraccio teatro, una delle compagnie di cui Bologna avrebbe dovuto andare fiera. C'erano artisti che avevano davvero qualcosa da dire, e infatti gli spettacoli di Roberto Latini accumulano repliche in tutto lo Stivale, e applausi scroscianti, perfino lacrime. Dappertutto, eccetto a Bologna. Nulla di personale, per carità, nessuno all'ombra delle Torri ce l'ha con lui: Bologna fa così un po' con tutti gli artisti, purtroppo. Basti pensare che mentre Francesca Mazza riceveva il premio Ubu come miglior attrice protagonista per West, il Comune di Bologna assegnava il Nettuno d'oro a Marco di Vaio, il bomber rossoblù, salvo poi vederselo restituire solo qualche giorno dopo dal diretto interessato, travolto dal vergognoso scandalo dei pass invalidi. Ecco, Bologna a volte sembra fatta così: sfrecci in Porsche nella "T" e ti becchi l'applauso, se passi in bicicletta - come fa tutti i giorni Latini lungo via Oberdan - sei destinato all'indifferenza.

Già, l'indifferenza: forse andrebbe chiamato proprio così quel muro che per tanto tempo ha impedito ad assessori e funzionari di Palazzo d'Accursio di varcare la porta del Teatro San Martino, che - ironia e cinismo della sorte - è proprio a una manciata di passi dagli uffici del settore Cultura del Comune, nella stessa via. A quell'ufficio sono rimaste appese le sorti del teatro per tanti lunghi mesi, dall'annuncio della "non stagione" del 2011 fino al commiato di oggi. Ma da lì non è mai giunta una risposta che in qualche modo sembrasse una soluzione, che facesse intravedere un'idea, un progetto, una politica. "Il Comune di Bologna - scrive Latini - ha rinunciato al teatro San Martino già da anni. Noi rinunciamo da oggi, insieme all'attesa che si potesse trovare una qualche chiave possibile per aprire ancora le porte del Teatro San Martino".

Questione di soldi? Sì, senza dubbio i soldi c'entrano, ma non sono loro ad aver determinato questa deriva: perché nel caso del Teatro San Martino non incontriamo né i debiti milionari del Teatro Comunale, né le cordate potenti e i grossi budget messi in campo per il salvataggio del Duse (un teatro "privato", proprio come il San Martino). Qui la questione ruota attorno a poche migliaia di euro, cifre talmente piccole da risultare invisibili nei meandri di un bilancio comunale. A uccidere il San Martino sono stati i "forse" e i "vedremo", gli appuntamenti disdetti dieci minuti prima dell'orario e quelli trascorsi per gran parte del tempo al telefono con qualcun altro, i bilanci rinviati di mese in mese, i "non so" e i "risentiamoci" ai quali ha fatto seguito ogni volta un lungo silenzio. "La chiusura di un teatro - scrive Latini, splendidamente - non è il destino possibile di un'economia. È lo specchio di una politica. La foto improvvisa, senza il tempo di mettersi in posa, scattata sull'aspirazione sociale e culturale di una città, sulla rivendicazione di senso di chi dice di credere nelle forze del confronto e delle differenze. La chiusura di un teatro non coincide con nessun tempo e nessuna crisi. Oggi denunciamo questa incoincidenza, denunciamo l'efficacia di una strategia o il dispetto di una palese incapacità".

La Cultura come bene di consumo, come businness fatto sulle spalle di un pubblico- cliente che si ingozza di film e di spettacoli per i tre giorni di un festival per poi rimanere digiuno tutto l'anno: questo ha ucciso il Teatro San Martino, questo uccide il teatro come luogo di formazione, in cui prendersi cura di un'offerta stabile in grado di nutrire e far crescere una comunità. Le platee deserte del progetto Schoenberg - uno degli ultimi altisonanti contenitori inaugurati in città - hanno origine proprio da qui: da una comunità che non conosce, perciò non riconosce, perchè stordita dai fuochi artificiali, da una Cultura che sceglie il brand e l'episodicità, scrollandosi dalle spalle qualsiasi responsabilità sociale.

Personalmente ho amato molto il Teatro San Martino: ho nei suoi confronti un debito enorme,  perchè proprio al San Martino mi sono innamorato del teatro contemporaneo.  Federica - organizzatrice, anima, cuore di Fortebraccio  - mi chiamava e mi invitava ad ogni spettacolo nei primi mesi in cui mi assegnarono alle pagine culturali dell'Informazione. Non era una formalità, lei voleva proprio che ci andassi, che vedessi quegli spettacoli. Mi feci convincere, ignaro che quel cedimento alla curiosità avrebbe da allora rivoluzionato le mie settimane, inserendo ogni due o tre giorni un appuntamento con il palcoscenico. Perciò oggi ho molta rabbia e sono un po' orfano, come tutte le altre volte in cui questa città ha svuotato e smantellato i luoghi in cui sono cresciuto.

La mia rabbia trova casa in quella che Roberto Latini descrive nella sua lettera di commiato, poche righe che rileggo spesso, con amarezza e gratitudine, ammirato dalla tenacia di chi non rinuncia, perfino in questi momenti, a mettere sul piatto un contributo utile:





C'è una frase di Ennio Flaiano che mi ha sempre ricondotto all'idea del teatro.
Una frase che chiude una poesia che al primo verso dice: "c'è un limite al dolore.."
Ho potuto usarla spesso negli anni del mio lavoro e mi piace lasciarla qui, oggi, come a restituirla dopo averla tenuta con cura, nell'occasione di questo appuntamento.
La frase chiude pochi bellissimi versi e penso possa aggiungersi ai silenzi che vorrei.
Flaiano concludendo scrive: "il gioco è questo: cercare nel buio qualcosa che non c'è, e trovarlo".
Mi viene in mente nel dispiacere semplice eppure complesso di questo esito.
Mi viene in mente nella convinzione che qualcosa nel buio in effetti ci sia e dispiace non essere riuscito a trovarlo.
Mi dispiace e mi fa rabbia. Una rabbia desolante, come la stupidità.
Come l'ottusità imperdonabile della presunzione che esclude la curiosità. Come la cecità di chi non vuol vedere. 
Ci sono dei difetti che non dovrebbero entrare nelle giornate di chi ha la responsabilità di un progetto culturale.
Difetti che non sono e non possono essere scusati per la mancanza dei fondi e le acrobazie possibili dalle cifre in bilancio.
Difetti che hanno degli effetti e oggi siamo qui a mostrarne uno.
La chiusura di un teatro non è il destino possibile di un'economia.
E’ lo specchio di una politica. La foto improvvisa, senza il tempo di mettersi in posa, scattata sull'aspirazione sociale e culturale di una città, sulla rivendicazione di senso di chi dice di credere alle forze del confronto e delle differenze.
La chiusura di un teatro non coincide con nessun tempo e nessuna crisi.
Oggi denunciamo questa incoincidenza, denunciamo l'efficacia di una strategia o il dispetto di una palese incapacità.
Il Comune di Bologna ha rinunciato al Teatro San Martino già da anni. 
Noi rinunciamo da oggi, insieme all'attesa che si potesse trovare una qualche chiave possibile per aprire ancora le porte del Teatro San Martino.



                                                                                                                                                           Roberto Latini


giovedì 26 aprile 2012

Maternity blues: chi muove la mano di una mamma assassina?


Non sono un patito del cinema, al grande schermo da sempre preferisco il palcoscenico, il teatro. Questo non significa che non ci siano film che amo molto o che vedo volentieri. E soprattutto non vuol dire che al cinema, poi, io non ci vada: ci sono stato anzi proprio martedì sera, per l'anteprima bolognese di Maternity Blues, il film di Fabrizio Cattani tratto dal testo teatrale From Medea di Grazia Verasani e presentato all'ultima Mostra del Cinema di Venezia.

Nel film, come nel libro, si parla di infanticidio, di madri assassine. Grazia Verasani, durante il dibattito che ha fatto seguito alla proiezione, ha raccontato di aver scritto quel testo nel 2002, cioè nei mesi in cui sui media si parlava del caso Cogne. Era indignata, ha spiegato, per la rapidità con cui si pronunciava una sentenza di colpevolezza tutta a carico di una madre, come se quel gesto estremo fosse solo il suo. E se il colpo letale ha senza dubbio una mano che lo sferra, la furia che genera questi delitti è una bestia feroce con molti domatori.

Perchè una madre arriva a uccidere il proprio figlio? è necessario porsela questa domanda e il film riesce molto bene a richiamarci a questa responsabilità. Si tratta di una pellicola molto dura, inevitabilmente: è ambientata in gran parte tra le pareti di un Istituto psichiatrico giudiziario, dove quelle donne cercano di recuperare il buono che è in loro. E racconta delitti crudeli, impietosi, che uccidono nell'anima anche chi li compie. Perciò è un film molto coraggioso, che sfida le leggi di mercato e quelle della compiacenza, in un periodo in cui la corsa, per tutti, è a far "cassetta": mi auguro il pubblico, per questo, lo premi con una consistente presenza e un fitto passaparola.

From Medea, il testo da cui il film è tratto,  è stato rappresentato a teatro in più di un allestimento. Il teatro è un luogo anarchico, in cui è possibile immaginare un mondo collassato in una stanza e sollevato dalla presenza degli uomini: così vivono, sotto lo sguardo del pubblico, le quattro madri detenute di From Medea. Nel film, al contrario, gli uomini esistono, come esiste anche il "fuori", una famiglia di origine, un marito che perdona. Si esce dall'anarchia del teatro, insomma,  e si entra nell'ordinario, nel riconoscibile, nel "sociale": per far breccia nel pubblico generalista è necessario far così. Ma non nascondo che questo "attorno" molto spesso mi ha perplesso perchè mi è sembrato che smussasse, a volte perfino fraintendesse, la forza e la radicalità del testo originario. Mettendo nelle mani di un uomo forse un po' di colpa ma soprattutto il potere di perdonare.

Riparto al novantesimo


Dopo i primi novanta giorni trascorsi nel purgatorio della cassa integrazione riprendo a scrivere. Me lo impongo, in un certo senso: perchè se fino a tre mesi fa la mia esistenza (professionale) era il mio lavoro, gli articoli che scrivevo nelle pagine dell'Informazione di Bologna, ora questo "silenzio forzato" non è certo un passo avanti. Anzi.

Quindi, anche se in piccolo - in minuscolo, direi - meglio rimettere mano alla tastiera, anche solo per mezza cartella al giorno, cioè poco meno di  mille battute, traducendo dallo slang delle redazioni. Un allenamento soft ma metodico, insomma, forse perfino una terapia. Ma è anche un modo per ristabilire un contatto con quei lettori (pochi o tanti, non importa) che in diverse occasioni hanno dimostrato di seguirmi e di interessarsi al mio lavoro: nulla di fondamentale, per carità, però credo sia legittimo sentire il bisogno di ritrovare quel legame, di ricreare un luogo di incontro, una sintonia.

Sull'Informazione scrivevo di Cultura: non è certo un vincolo ma è abbastanza naturale che il mio sguardo parta ancora da lì. Solo che in questo caso potrò concedermi uno stile più leggero e magari perfino qualche tocco polticamente scorretto, di quelli che nelle redazioni dei  giornali si pensano in continuazione ma poi, alla fine, non si scrivono mai.

E se per qualcuno questo è un primo incontro, qui c'è una raccolta abbondante del mio passato più recente. Nell'attesa che riprenda il futuro.