sabato 28 aprile 2012

Teatro San Martino, Fortebraccio lascia: "Rinunciamo all'attesa"


Un tulipano giallo e solitario è il segno con cui Fortebraccio teatro, la compagnia diretta da Roberto Latini, dà il suo commiato al palcoscenico del San Martino di Bologna, scrivendo definitivamente la parola "fine" a un'esperienza di gestione iniziata nel 2007 e che per anni ha offerto con ostinazione il meglio del teatro di ricerca alla città delle Due Torri. Da Luca Ronconi a Emma Dante, da Mariangela Gualtieri al Teatro delle Albe. E poi Pippo Delbono, Armando Punzo, Mario Martone e una miriade di compagnie grandi e piccole, tutte quelle che hanno accolto l'invito singolare che Latini rivolgeva loro: venite qui, prendete residenza per un po' e scegliete voi lo spettacolo da offrire al pubblico. Un invito aperto che in tre stagioni è riuscito a far gravitare da via Oberdan una fetta ampia e interessante della ricerca drammaturgica, talmente ricca da far impallidire i teatri stabili in primo luogo, ma anche i tanti festival della Cultura "mordi e fuggi" di cui Bologna è drogata da anni.

Ma soprattutto lì dentro c'era Fortebraccio teatro, una delle compagnie di cui Bologna avrebbe dovuto andare fiera. C'erano artisti che avevano davvero qualcosa da dire, e infatti gli spettacoli di Roberto Latini accumulano repliche in tutto lo Stivale, e applausi scroscianti, perfino lacrime. Dappertutto, eccetto a Bologna. Nulla di personale, per carità, nessuno all'ombra delle Torri ce l'ha con lui: Bologna fa così un po' con tutti gli artisti, purtroppo. Basti pensare che mentre Francesca Mazza riceveva il premio Ubu come miglior attrice protagonista per West, il Comune di Bologna assegnava il Nettuno d'oro a Marco di Vaio, il bomber rossoblù, salvo poi vederselo restituire solo qualche giorno dopo dal diretto interessato, travolto dal vergognoso scandalo dei pass invalidi. Ecco, Bologna a volte sembra fatta così: sfrecci in Porsche nella "T" e ti becchi l'applauso, se passi in bicicletta - come fa tutti i giorni Latini lungo via Oberdan - sei destinato all'indifferenza.

Già, l'indifferenza: forse andrebbe chiamato proprio così quel muro che per tanto tempo ha impedito ad assessori e funzionari di Palazzo d'Accursio di varcare la porta del Teatro San Martino, che - ironia e cinismo della sorte - è proprio a una manciata di passi dagli uffici del settore Cultura del Comune, nella stessa via. A quell'ufficio sono rimaste appese le sorti del teatro per tanti lunghi mesi, dall'annuncio della "non stagione" del 2011 fino al commiato di oggi. Ma da lì non è mai giunta una risposta che in qualche modo sembrasse una soluzione, che facesse intravedere un'idea, un progetto, una politica. "Il Comune di Bologna - scrive Latini - ha rinunciato al teatro San Martino già da anni. Noi rinunciamo da oggi, insieme all'attesa che si potesse trovare una qualche chiave possibile per aprire ancora le porte del Teatro San Martino".

Questione di soldi? Sì, senza dubbio i soldi c'entrano, ma non sono loro ad aver determinato questa deriva: perché nel caso del Teatro San Martino non incontriamo né i debiti milionari del Teatro Comunale, né le cordate potenti e i grossi budget messi in campo per il salvataggio del Duse (un teatro "privato", proprio come il San Martino). Qui la questione ruota attorno a poche migliaia di euro, cifre talmente piccole da risultare invisibili nei meandri di un bilancio comunale. A uccidere il San Martino sono stati i "forse" e i "vedremo", gli appuntamenti disdetti dieci minuti prima dell'orario e quelli trascorsi per gran parte del tempo al telefono con qualcun altro, i bilanci rinviati di mese in mese, i "non so" e i "risentiamoci" ai quali ha fatto seguito ogni volta un lungo silenzio. "La chiusura di un teatro - scrive Latini, splendidamente - non è il destino possibile di un'economia. È lo specchio di una politica. La foto improvvisa, senza il tempo di mettersi in posa, scattata sull'aspirazione sociale e culturale di una città, sulla rivendicazione di senso di chi dice di credere nelle forze del confronto e delle differenze. La chiusura di un teatro non coincide con nessun tempo e nessuna crisi. Oggi denunciamo questa incoincidenza, denunciamo l'efficacia di una strategia o il dispetto di una palese incapacità".

La Cultura come bene di consumo, come businness fatto sulle spalle di un pubblico- cliente che si ingozza di film e di spettacoli per i tre giorni di un festival per poi rimanere digiuno tutto l'anno: questo ha ucciso il Teatro San Martino, questo uccide il teatro come luogo di formazione, in cui prendersi cura di un'offerta stabile in grado di nutrire e far crescere una comunità. Le platee deserte del progetto Schoenberg - uno degli ultimi altisonanti contenitori inaugurati in città - hanno origine proprio da qui: da una comunità che non conosce, perciò non riconosce, perchè stordita dai fuochi artificiali, da una Cultura che sceglie il brand e l'episodicità, scrollandosi dalle spalle qualsiasi responsabilità sociale.

Personalmente ho amato molto il Teatro San Martino: ho nei suoi confronti un debito enorme,  perchè proprio al San Martino mi sono innamorato del teatro contemporaneo.  Federica - organizzatrice, anima, cuore di Fortebraccio  - mi chiamava e mi invitava ad ogni spettacolo nei primi mesi in cui mi assegnarono alle pagine culturali dell'Informazione. Non era una formalità, lei voleva proprio che ci andassi, che vedessi quegli spettacoli. Mi feci convincere, ignaro che quel cedimento alla curiosità avrebbe da allora rivoluzionato le mie settimane, inserendo ogni due o tre giorni un appuntamento con il palcoscenico. Perciò oggi ho molta rabbia e sono un po' orfano, come tutte le altre volte in cui questa città ha svuotato e smantellato i luoghi in cui sono cresciuto.

La mia rabbia trova casa in quella che Roberto Latini descrive nella sua lettera di commiato, poche righe che rileggo spesso, con amarezza e gratitudine, ammirato dalla tenacia di chi non rinuncia, perfino in questi momenti, a mettere sul piatto un contributo utile:





C'è una frase di Ennio Flaiano che mi ha sempre ricondotto all'idea del teatro.
Una frase che chiude una poesia che al primo verso dice: "c'è un limite al dolore.."
Ho potuto usarla spesso negli anni del mio lavoro e mi piace lasciarla qui, oggi, come a restituirla dopo averla tenuta con cura, nell'occasione di questo appuntamento.
La frase chiude pochi bellissimi versi e penso possa aggiungersi ai silenzi che vorrei.
Flaiano concludendo scrive: "il gioco è questo: cercare nel buio qualcosa che non c'è, e trovarlo".
Mi viene in mente nel dispiacere semplice eppure complesso di questo esito.
Mi viene in mente nella convinzione che qualcosa nel buio in effetti ci sia e dispiace non essere riuscito a trovarlo.
Mi dispiace e mi fa rabbia. Una rabbia desolante, come la stupidità.
Come l'ottusità imperdonabile della presunzione che esclude la curiosità. Come la cecità di chi non vuol vedere. 
Ci sono dei difetti che non dovrebbero entrare nelle giornate di chi ha la responsabilità di un progetto culturale.
Difetti che non sono e non possono essere scusati per la mancanza dei fondi e le acrobazie possibili dalle cifre in bilancio.
Difetti che hanno degli effetti e oggi siamo qui a mostrarne uno.
La chiusura di un teatro non è il destino possibile di un'economia.
E’ lo specchio di una politica. La foto improvvisa, senza il tempo di mettersi in posa, scattata sull'aspirazione sociale e culturale di una città, sulla rivendicazione di senso di chi dice di credere alle forze del confronto e delle differenze.
La chiusura di un teatro non coincide con nessun tempo e nessuna crisi.
Oggi denunciamo questa incoincidenza, denunciamo l'efficacia di una strategia o il dispetto di una palese incapacità.
Il Comune di Bologna ha rinunciato al Teatro San Martino già da anni. 
Noi rinunciamo da oggi, insieme all'attesa che si potesse trovare una qualche chiave possibile per aprire ancora le porte del Teatro San Martino.



                                                                                                                                                           Roberto Latini


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